Il 2023 è stato di gran lunga l’anno più caldo mai registrato, mentre le emissioni di gas serra non accennano a diminuire in Italia e nel mondo. Ma, nonostante dati e conseguenze sempre più gravi inconfutabili – in Italia per esempio l’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi come le ondate di calore, le alluvioni e la siccità nella valle del Po nel 2022 e poi nel 2023 – il negazionismo climatico non si ferma. Si trasforma però, diventando più subdolo e forse più pericoloso. Un rapporto pubblicato il 16 gennaio 2024 dall’organizzazione non governativa Center for Countering Digital Hate (CCDH) svela come da semplice rifiuto della crisi climatica o delle sue cause antropiche, il negazionismo climatico sia passato a mettere in discussione le soluzioni proposte per il riscaldamento globale.
Il CCDH ha analizzato tramite machine learning 12.000 video, caricati su YouTube da 96 canali con una reputazione negazionista, che insieme hanno raccolto 325 milioni di visualizzazioni tra gennaio 2018 e settembre 2023. Nel 2018 il 65% dei video negazionisti ripeteva che il cambiamento climatico non accade o, se accade, non è colpa delle attività umane. Nel 2023 invece questi messaggi sono diventati appena il 30%. Il 70% dei contenuti ora invece argomenta che il cambiamento climatico sarà innocuo o addirittura benefico, oppure che le soluzioni proposte non funzioneranno, o ancora che la scienza del clima e i movimenti per contrastare l’emergenza climatica sono inaffidabili. Spesso a proporre questi concetti sono gli stessi canali o addirittura le stesse persone che, in precedenza, negavano la realtà del riscaldamento globale.
Questa nuova maschera del negazionismo climatico, chiamata new denial, tradotto in italiano come «nuovo negazionismo» o anche «subnegazionismo», si dedica a seminare dubbi sulle azioni per contrastarlo, disinformando per insinuare che ogni sforzo sia inutile, troppo costoso, o addirittura controproducente. Tra gli esempi descritti dal report ci sono video in cui si argomenta che le energie rinnovabili siano «inaffidabili» e «devastanti per l’ambiente», che le politiche per il clima potrebbero rovinare l’economia e impoverire la popolazione, in cui si rifiuta l’affidabilità dei modelli climatici. O infine in cui si argomenta che l’aumento dei livelli di CO2 sia benefico perché «rinverdisce il pianeta» facendo crescere le piante.
Se la tattica è diversa, l’obiettivo finale però è lo stesso: paralizzare l’azione collettiva e individuale, mentre il tempo per evitare le peggiori conseguenze della crisi ecologica è agli sgoccioli. Cercando di rivolgersi al pubblico che più di tutti potrebbe essere pronto a mobilitarsi: i giovani.
Che cosa significa negazionismo?
Può sembrare discutibile – e in effetti è dibattuto – attribuire l’etichetta di “negazionismo” a questo fenomeno. Nella sua accezione letterale, negazionismo significa il rifiuto ideologico di una realtà ampiamente accettata (storicamente si riferiva al negazionismo dell’Olocausto). Più in generale il negazionismo però si può definire così:
L’uso motivato e sistematico di tattiche retoriche con l’obiettivo di creare l’impressione di un dibattito legittimo, laddove invece esiste un consenso, basato su fatti e teorie ragionate.
Non si tratta dunque del semplice sostenere una posizione antiscientifica. Rifiutare la realtà, sia individualmente sia socialmente, ha quasi sempre lo scopo non tanto di negare il fatto in sé, ma di evitare le conseguenze di un dato di fatto: è un meccanismo di difesa. Come tali i negazionismi non dicono semplicemente “no”: sono costellazioni di affermazioni che mirano a giustificare lo status quo.
Il sociologo Stanley Cohen nel saggio Stati di negazione (Carocci, 2002) descrive infatti tre livelli di negazionismo. Il primo è quello letterale, cioè «non sta succedendo». Nel momento in cui negare il fatto in sé diventa impossibile, si passa al secondo livello, quello interpretativo. In questo caso il negazionismo non mette più in dubbio il fenomeno, ma la sua interpretazione. È un tipo di negazionismo che, nel caso del clima, si incontra spesso: accetta l’aumento delle temperature medie del globo, ma nega il consenso scientifico sulle sue cause antropiche, attribuendolo falsamente ai cicli climatici naturali o all’attività solare. Quando anche negare le cause diventa difficile, si passa al terzo livello, che è detto implicito: «argomentazioni, ragioni o razionalizzazioni per non rispondere in modo adatto a un’informazione angosciosa», secondo Cohen. In pratica non si negano il fenomeno e le cause, ma si negano le loro conseguenze. Di fronte all’evidenza di un clima mutato, i negazionisti spostano quindi i riflettori sulle conseguenze del cambiamento climatico e su come affrontarle. È esattamente la fase che stiamo osservando adesso. Non è la prima volta: per esempio, l’industria statunitense in passato, in modo simile, propagandò il timore sulle conseguenze economiche che sarebbero derivate regolamentando le emissioni all’origine delle piogge acide.
Riconoscere il nuovo negazionismo
Il new denial sfrutta una serie di tattiche retoriche che il climatologo Michael Mann ha chiamato le D-words, le “parole con la D”: delaying, division, downplaying, doomism, deflection (ovvero: ritardare, dividere, sottovalutare, catastrofismo, sviare). Vediamo alcuni esempi di ciascuna tattica.
Delaying (ritardare). Un esempio di argomento impiegato per ritardare l’azione climatica è sostenere che la transizione energetica debba basarsi su tecnologie come la cattura di CO2 invece che sull’uso di altre fonti di energia. Tecnologie efficienti di cattura dei gas serra in teoria potrebbero permettere di consumare combustibili fossili in modo pulito. In pratica, benché considerate utili se non necessarie a lungo termine, sono tecnologie allo stato embrionale. Non è realistico attendere che siano in grado di gestire tutte le emissioni di CO2per risolvere la crisi climatica.
Un’altra tattica dilatoria è sollevare continuamente problemi dovuti alle energie rinnovabili. Alcuni di questi sono reali, come la difficoltà nel riciclo dei pannelli solari, ma i negazionisti tendono a farli apparire più gravi o insormontabili di quanto non siano. Altri sono invece falsi, come l’ipotesi che le pale eoliche uccidano i cetacei. Le pale eoliche invece possono uccidere davvero gli uccelli, dato reale che i negazionisti ripetono senza metterlo però in contesto: il loro impatto è minuscolo rispetto a quello delle collisioni con gli edifici o dei gatti domestici.
Division (dividere). Le tattiche divisorie sono sottili perché spesso si basano su dibattiti che, di per sé, possono essere del tutto in buona fede. Per esempio, quale sia la fonte energetica su cui puntare per la transizione. Esistono da tempo delle roadmap validate da numerosi studi per la transizione energetica, come Net Zero 2050 dell’International Energy Agency, le quali si basano su un mix di diverse fonti energetiche che varia a seconda delle condizioni di diversi Paesi. Creando però la falsa impressione che non vi sia un consenso in merito e che vi debba essere una “pallottola magica” su cui puntare a scapito di tutte le altre fonti. Per esempio, argomentare che la transizione energetica richieda per forza di passare quasi esclusivamente all’energia nucleare, o viceversa di escluderla a priori, si può indurre esitazione nell’opinione pubblica e nell’azione dei governi.
Downplaying (sottovalutare). I “nuovi negazionisti” ammettono che il riscaldamento c’è, ma spesso argomentano che non sarà un problema. Il negazionista statunitense Michael Shellenberger, per esempio, argomenta esplicitamente che «non è una catastrofe [...] Nessun problema globale è mai stato esagerato come il cambiamento climatico [...] abbiamo perso ogni senso della misura». Se anche ci saranno dei problemi, per Shellenberger basterà affrontarli con la nostra capacità di adattamento tecnologica. C’è addirittura chi sostiene che il cambiamento climatico sia positivo: in realtà, sebbene possano esserci alcuni benefici locali, il bilancio globale è del tutto negativo, e i costi economici e per la salute umana rischiano di essere enormi.
Deflection (sviare). Cioè addossare la responsabilità a qualcun altro. Per esempio argomentando che non serva a nulla ridurre le emissioni in Occidente se non lo fanno anche Paesi come la Cina, quando in realtà è necessario che tutti facciano la loro parte. Un esempio sorprendente di questo tipo di tattica è il concetto di carbon footprint, l’impronta climatica. Un concetto apparentemente ecologista, ma che è stato creato e propagandato dalla compagnia petrolifera British Petroleum. Se è del tutto vero che modificare le nostre abitudini può essere importante per ridurre l’impatto sul clima, la logica di British Petroleum era di spostare l’attenzione dalla – ben più efficace – regolamentazione dell’industria dei combustibili fossili alla responsabilità del singolo.
Doomism (catastrofismo). L’ultima tattica è apparentemente paradossale. Invece di dubitare dell’impatto del riscaldamento del pianeta, al contrario argomenta che la catastrofe è inevitabile: dobbiamo arrenderci e prepararci al peggio, perché è troppo tardi e il cambiamento è impossibile. È una posizione che sembra diffusa nelle generazioni più giovani, la stessa generazione che mostra alti livelli di ecoansia da crisi climatica, le quali possono, in alcuni gruppi di adolescenti, sfociare nel negazionismo. Per esempio, un articolo del 2018 sul New York Times dichiarava che «per smettere completamente di emettere carbonio entro i prossimi cinque o dieci anni, avremmo bisogno di riorientare radicalmente quasi tutta la produzione economica e sociale umana, un compito difficilmente immaginabile e ancor meno fattibile».
Qui bisogna distinguere tra pessimismo e catastrofismo. Molti scienziati sono in qualche modo pessimisti, nel senso che è chiaro come gli sforzi attuali per evitare la crisi climatica siano insufficienti, e che potremmo trovarci vicino a diversi punti di non ritorno. Ma è altrettanto vero che, se anche non riuscissimo a evitare la crisi climatica come sarebbe auspicabile, ogni singola azione può salvare vite umane e risorse economiche. E non è vero che richieda l’impossibile: i rapporti dell’IPCC mostrano come ogni decimo di grado conta, così come i provvedimenti necessari siano fattibili e più economici rispetto all’alternativa di non fare niente.
Perché si rema contro
L’idea di opporsi a un pericolo che può mettere in crisi la nostra civiltà può sembrare inspiegabile. Tuttavia, la transizione ecologica non è indolore. A lungo termine, richiederà di mutare non solo il modo in cui ricaviamo l’energia, ma anche quello con cui gestiamo le risorse e la produzione, e infine il modello socioeconomico. Tutto questo incontra forti resistenze culturali, sociali, politiche ed economiche. L’industria dei combustibili fossili, in particolare, affronta una minaccia esistenziale.
Non è un caso quindi che sia proprio quest’ultima a promuovere il nuovo negazionismo, così come in passato ha promosso quello vecchio. A settembre 2023, il Wall Street Journal ha rivelato che di recente la compagnia petrolifera Exxon ha cercato di influenzare il dibattito minimizzando i danni dovuti al cambiamento climatico e l’impatto ambientale dell’estrazione di combustibili fossili. Tutto questo anche se l’azienda (dopo averlo negato per decenni, benché ne fosse perfettamente consapevole) ormai ammette pubblicamente la realtà del cambiamento climatico e fin dal 2008 ha persino annunciato di non finanziare più think tank che seminano il negazionismo “classico”. L’industria dei combustibili fossili finanzia però fondazioni interamente dedite al nuovo negazionismo, come la Global Warming Policy Foundation, che ha ricevuto dalle aziende petrolifere 30 milioni di dollari e genera contenuti volti a minimizzare l’impatto del cambiamento climatico.
Cosa ancora più inquietante, il new denial sembra avere successo tra i giovani: sempre secondo il CCDH, negli Stati Uniti il 33% dei teenager ritiene che le politiche per il clima facciano più male che bene, e il 31% che non ci si possa fidare della scienza del clima, mentre il negazionismo di vecchio stampo è sotto il 25%. YouTube, la piattaforma analizzata dallo studio, è del resto di gran lunga quella più usata dalle persone tra 13 e 17 anni.
Si tratta di un copione che è già stato osservato altre volte: in passato, per esempio, lo ha fatto l’industria del tabacco. Un documentatissimo riferimento sul rapporto tra interessi e negazionismo scientifico è il volume Mercanti di dubbi di Naomi Oreskes e Erik M. Conway. Ma il new denial è ancora più subdolo. Mettendo in discussione le azioni da intraprendere, non può essere confutato dall’esperienza diretta di un fenomeno, ma solo a posteriori, quando queste azioni saranno state messe in atto. Ammantato di falsa ragionevolezza e sfruttando dubbi e timori di per sé legittimi, il nuovo negazionismo è uno dei più grandi ostacoli all’azione globale contro la crisi ecologica in cui viviamo.
Un graffito a Londra, probabilmente dell’artista Bansky, in cui si legge: «Non credo nel riscaldamento globale» (immagine: Wikipedia / autore: Matt Brown)
Il celebre climatologo Michael E. Mann, da sempre impegnato anche contro il negazionismo climatico (Las Vegas, 13 luglio 2013) (immagine: Wikipedia / autore: Reason4Reason)
Diagramma che riassume le diverse tipologie di delay discourse, cioè gli argomenti usati per ritardare l’azione contro il cambiamento climatico (immagine: Wikimedia / fonte: William F. Lamb, Giulio Mattioli, Sebastian Levi, J. Timmons Roberts, Stuart Capstick, Felix Creutzig, Jan C. Minx, Finn Müller-Hansen, Trevor Culhane, Julia K. Steinberger (2020). "Discourses of climate delay". Global Sustainability 3 (e17): 2. DOI:10.1017/sus.2020.13. "Fig. 1. A typology of climate delay discourses.")
Un cartello contro il negazionismo climatico alla People’s Climate March del 29 aprile 2017 a Washington (Stati Uniti) (immagine: Wikipedia / autore: Edward Kimmel from Takoma Park, MD)
Come è cambiato il negazionismo climatico su YouTube dal 2018 al 2023, secondo il report del CCDH. Le percentuali in rosso e arancione si riferiscono ad argomenti del negazionismo classico, le percentuali in varie tonalità di blu ad argomenti del nuovo negazionismo (autore: Massimo Sandal a partire dai dati del rapporto del CCDH)